Se gli stati d’animo fossero quattro, come le stagioni dell’anno…
Perché appendere al testo, un titolone così ricercato? In realtà, la risposta è semplice: coloravo un ‘mandala’, quando mi sono resa conto che i pastelli a mia disposizione, erano solo quattro. Non che non ce ne fossero: piuttosto, mancavano di punta ben fatta.
Alice, neanche ventenne, con lo chignon a ‘mo di ballerina e la maglia di una squadra sportiva indosso, mi propone il suo bellissimo album, ma per ora la ringrazio scegliendo di terminare la stampa di ieri, iniziata in salone.
E allora ecco che, come piace solitamente fare a me, ho cominciato a collegare il numero a date, episodi, cose legate al numero quattro. E sono uscite le stagioni, o anche le pizze, perché no! O come le settimane, esatte, in cui lavoro per conto di una cooperativa che si è accreditata l’appalto in ospedale. Bene, ecco scartata la prima sorpresa: il mio nuovo impiego, grazie alla qualifica in qualità di ausiliario socio assistenziale, versa in un ramo su cui la vita delle persone affonda le proprie radici: la salute mentale.
Un reparto che insegna, in cui si entra con consapevolezza, attenzione, prevenzione, amore e cura. Quest’ultimi, bisogna indossarli prima ancora della divisa (e non mi stuferò mai di sottolinearlo).
Età media: 35 anni.
Si, avete letto bene: i numeri 3 e 5, messi vicini, compongono un numero basso se pensiamo che gli utenti ricoverati, sono ragazzi, ragazze, dal passato tormentato.
Spesso è la droga a far appassire questi <<fiori>>, altresì, le famiglie stesse divengono fautrici di un destino segnato, compromesso, le cui cicatrici si vedono come tatuaggi sulla pelle, loro che, dall’abbondante sensibilità, e’ come se quella pelle non l’avessero più.
Un giovane tra i giovani, si allena notte e giorno: lui non ha mai toccato né alcool né droga, eppure la vita l’ha messo davanti all’ostacolo della schizofrenia.
Lui, che davanti agli specialisti, dichiara di volersi perfezionare nella difesa personale per combattere la malattia che si è presa gioco della sua mente.
Infonde riflessione e mette la pelle d’oca, giacché chi ne soffre quasi sempre ne è consapevole e vive una vita sul ring.
E come chi crede nei miracoli, ci si aggrappa a quel che si ha: chi alla preghiera, chi alle sbarre perché queste diventino strumento di allenamento. La speranza sta in coda a tutto e guai se venisse a mancare.
Dietro ai sorrisi, troviamo sofferenza, depressione, delusione. Sono persone che dalla vita hanno ricevuto schiaffi, più o meno gratuiti e adesso, eccoli lì, seduti a riacquistare le forze, tra acqua e medicine.
Fissano i muri, su cui poi qualcuno gli fa il gomito per invitarli ad appenderci qualcosa, oltre che i loro sogni. Entrano nella speranza di tessere le fila del discorso lasciato in sospeso, il più importante di tutti: quello verso se stessi.
Cercano mani su cui appoggiare il loro peso, volti a cui rivolgere i propri pensieri, talvolta anche braccia da abbracciare. Qui avviene l’abc: come quando inizi la scuola e compili il test d’ingresso. La valutazione non implica un giudizio, da cui ci si astiene per segreto professionale, ma è fondamentale per capire chi abbiamo davanti.
Non la malattia, bensì la persona.
E come sui tasti di un pianoforte, giorno dopo giorno, si toccano tasti gravi e meno gravi e ci si addentra man mano nella melodia…ovvero: patologia. La si suona insieme, poiché lo spartito appartiene al degente e le corde sono le sue.
Con delicatezza gli si chiede di suonare a quattro mani, come le stagioni o, come vorremmo, gli stati d’animo.
Simone, si addormenta davanti alla macchinetta del caffè, prima ancora che la caffeina possa svegliarlo; quando ti avvicini a questo simpatico trentenne, il sorriso non viene mai meno.
Osserva, ti chiede ‘come stai?’ e se ha qualcosa in tasca te lo offre, scusandosi pure. Sapete perché? Si giustifica dicendo che ha solo quello da dare. Ma chissà quanto ha, in realtà. Perché colui che mette a disposizione, lo fa con tanto di cuore, sapendo quanto vale un gesto simile.
Due ragazzi più in là, dopo settimane a stretto contatto, tra sguardi d’intesa e posti vicini al tavolo, cedono ad un bacio intenso. Dura più di una pubblicità, sentito, voluto.
Un uomo lancia una sedia contro la porta d’ingresso, intimando di chiamare le forze dell’ordine, se non liberato all’istante. Da una prima opposizione, il paziente conversa con la specialista e spiega il suo gesto, con la rabbia che lascia spazio alla calma. Come un fuoco che divampa e si spegne poco a poco.
La rabbia, questa straordinaria forma di emozione, ci accompagna già da quando gattonavamo, quindi vive in noi da sempre, come istinto primordiale.
Le emozioni sono così, oltre 25 ne contiamo: più precisamente 27. Belle e meno belle.
E questi luoghi, sono un vero e proprio bagno di conoscenza, che va oltre al percorso di studio. Ci si rende conto, che senza il benessere psichico, non si va da nessuna parte. Avvengono blocchi, retromarce, inversioni. Nel tempo si convive con il disturbo, ma all’inizio è un’odissea, come racconta una compagna di scuole superiori.
‘Mia sorella è affetta da schizofrenia e la mia famiglia ne è completamente travolta e stravolta. Una volta fuori di qui, mia sorella andrà in comunità, e’ l’alternativa migliore per tutti, dopo 15 anni cosi’. Le lacrime le rigano il volto, le mani cercano le mie, ci si scambia i contatti nell’attesa di un pizza tra conoscenti di vecchia data.
La sorella non aveva più le forze di farsi una doccia, di prendersi cura di sé, dei bisogni primari.
Figuriamoci, cosa significhi per questa famiglia e milioni come loro, vivere (e anche sopravvivere) a un dolore di un proprio caro.
Li fuori, si lamentano per il semaforo troppo a lungo rosso, la cassiera che non riesce ad aprire la busta della spesa, il bimbo che attacca la caccola al sedile posteriore. Riflettiamo…
Secondo voi, a cosa, o meglio, a chi fanno riferimento i pazienti nel loro breve/medio ricovero?
Alla mamma. La figura genitoriale che dona la vita, e’ onnipresente a qualsiasi età. Sui fogli, un uomo alto e ossuto con l’abitudine di sostare a lungo dietro le porte delle camere, scrive ‘mamma, son tanto felice…’, come la canzone di Beniamino Gigli.
La mamma, colei che premurosamente citofona per prima in orario di visite, con le borse piene di cose buone, per confermare ancora una volta che lei c’è, come quando ti aspettava in grembo, e accarezzava il pancione in attesa di stringerti fra le sue braccia.
E come oggi, nella sofferenza di una malattia mentale, lei al tempo che fu, ti partoriva con dolore, quel dolore che ora condivide insieme, indipendentemente dall’età, la mamma c’è sempre.
Quanto costa una chiamata, in cui si chiede un semplice ‘stai bene?’, oppure una sorpresa inaspettata?
Sono quei piccoli gesti che fanno tanto bene al cuore.
Fanno sentire amati, semplicemente.
Pratichiamola questa gentilezza, almeno lei non facciamola passare di moda.
Buon proseguimento, cari lettori 🍀❤️
Viviana
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