Noi due sotto un arco e tu in un baleno

Cari lettori, l’autrice ora vi farà una confidenza: il titolo che avete letto pocanzi, l’avevo tanto pensato quanto il definitivo (A bordo di un arcobaleno). Ero incerta. Io e Fabry, ci siamo creati il nostro nido, proprio come fanno i “piccioncini” e l’arco mi dava l’impressione di protezione, accoglienza. Il baleno, invece, è riferito a Lucrezia: lei è stata concepita fin dai nostri pensieri.

Di seguito, il mio testo narrato in corso d’opera: booktrailer edito Cavinato International, realizzato grazie al mio sarto artistico

che porta il nome di Fabrizio Gregori.

 

“Un giorno, un arcobaleno si accomodò sul divano di casa. Lo trovai lì, senza preavviso. Mi misi ad osservarlo, in tutte le sue sfumature e pensai: è proprio come la vita lui, dove ciascun colore corrisponde al suo momento. Accarezzandomi il pancione, ripercorsi gli attimi della mia, fatta di saliscendi vertiginosi, dove tenersi forte, spesso era un’impresa. Eppure, nonostante le burrasche e i dolori, il mio arcobaleno è sempre arrivato e le diedi il nome di nostra figlia, Lucrezia. Anche lei stava attraversando un periodo epico, eppure sguazzava felice nel grembo materno, dove anche il silenzio diventava motivo di dialogo. Ed eccola qui, che scalcia! Nelle lunghe giornate in cui papà lavorava, io e lei andavamo in vacanza. La meta era quella estiva, come il luogo dove un anno fa scoprimmo di essere in tre. Per prepararsi, occorreva poco: uno scatto allo specchio e un’applicazione che dava accesso ai sogni. Lo sfondo prendeva la forma dei desideri, e per un momento, ci isolavamo dal mondo, come chi si trova in un’isola deserta. Io pensavo solo a tutelare la creatura che viveva in me, cercando di trasmetterle emozioni belle e vivaci, come i colori che usavo per dare vita ai cartoni animati, che ora le tengono compagnia mentre dorme. Gli ormoni e la loro ventata artistica, mi diedero la password: le mani non poterono fermarsi, avevano la necessità di colorare e scrivere. Fu una sorpresa per me, più di quella che si trova nelle uova di Pasqua: dal mio compleanno, tra balli e palloncini, iniziai a mettermi all’opera. Mi fermavo esclusivamente per ragioni di cordone: nelle visite, rigorosamente in mascherina, ti ammiravo nelle capriole galleggianti e al sentire del tuo battito, il mio sussultava. Avevo davanti a me uno spettacolo unico, tanto da richiedere il bis al dottore. “Ancora un’altra immagine”, e lui sorridendo, mi accontentava. Sapeva che in quel momento critico, di bello c’erano soltanto i bambini portatori di speranza. E tu con le famiglie tutte, hai cominciato a dipingere arcobaleni, dalla scritta “Andrà tutto bene”. Da allora mi reclutai l’influencer delle cose belle. Perché loro esistono ancora, sono solo in stand-by. Ripresi a guardare l’ospite (ora desiderato) in salotto: illumina il bouquet di carta, stretto tra le mie mani, durante la proposta di nozze. Un mazzo di rose scritte, con perle qua e la: avvicinandosi, si sente ancora il profumo, di carta e di fiore. Loro sono un po’ come le buone notizie, incise sui fogli e gli undici boccioli sulla mia schiena. La stessa colonna, affranta dagli accadimenti capitati per anni, ma risollevata grazie all’incontro con il tuo papà. Il giorno del matrimonio, le sue mani l’accarezzavano dolcemente: si stava prendendo cura di quelle rose, togliendoci ogni volta di più le spine del passato. Lui è il principe che ha tratto in salvo Cenerentola e l’ha portata via a bordo di una carrozza e oggi il mondo saprà che da quella storia, è nata Lucrezia, arrivata a bordo di un arcobaleno”.

Tanti sono cinici rispetto alle fiabe che possono concretizzarsi nella vita di coppia, però vi garantisco che esistono. E’ la perfezione che non c’è. Lucrezia è la prova vivente della meraviglia che porta amore e luce in un momento cupo, colei che aggiusta gli umori: da sempre i bimbi (e lo vediamo anche nei cartoni animati), sono la parte buona e genuina. Loro sono quelli che “possono tutto”, anche frantumare un cuore d’acciaio e la piccola protagonista, conquista con la sua spontaneità. Una bacchetta magica al posto del biberon e l’incantesimo è fatto. Senza saperlo, porta il vero nome di Cenerentola ed io l’ho scoperto per puro caso qualche mese fa, mentre le leggevo la celebre fiaba targata Walt Disney. Una coincidenza destinata a ripresentarsi durante il nostro viaggio di nozze, in cui eravamo già in tre: tra tutti i resort dove potevamo capitare, il fato ci accomodava accanto alla scalinata dove la donzella perse la sua scarpetta di cristallo. “No, vi prego, aspettate! Non so neanche il vostro nome. Quando potrò rivedervi?”. Il mio principe, era differente e decisamente moderno: mi inviò la richiesta d’amicizia su Facebook, dove un “conferma” o “rifiuta” sono capaci a cambiarti il destino, alle volte. Il nostro è stato clemente: ha come registrato i rispettivi gusti e caratteri, prendendo nota accuratamente, facendoli defluire grazie a una rete internet. Me lo immagino così, come l’algoritmo perfetto di Stranamore, ma virtuale.

E giusto un paio d’anni prima, mi ero disconnessa da quel mondo d’apparenza, per rifarmi in uno vero, d’appartenenza. Intervistare nomi illustri, non faceva altro che alimentare in me il desiderio di porre fine a quell’ambiente, che oltre al superfluo, non aveva. Ripresi in mano carta e penna e ritornai in quello credibile, fatto di storie e persone comuni e soprattutto di gran lavoratori. Col senno di poi, tenterei ugualmente, poiché non si vive di rimpianti, ma di esperienze. Si passa un sacco di tempo a chiedersi come ci si possa sentire realizzati o a domandarsi cosa manchi nella propria esistenza. Io, fino al 10 novembre 2019, non seppi davvero cosa fosse e il giorno dopo fu più chiaro: sentii il suo cuore pulsare nel mio corpo e conobbi la vera felicità. Certo, Fabrizio ha iniziato a scrivere un nuovo capitolo e come scoprirete nel mio secondo figlio di carta, è la persona a cui mi sono ispirata. Quando mi chiedono “ma come hai trovato il tempo, la forza e le energie?”, io dico che “un libro lo leggi prima interiormente, costruendolo col proprio vissuto”, come nel mio caso. L’idea, nel passato, mi sfavillò non poche volte, ma ahimè,… sarebbe saltato fuori un guaio. 

Non avrei voluto infondere quel terrore, misto a tristezza, al mio lettore. Mi ci sarei messa davanti come scudo, pur di proteggerlo da quella triste storia e, apprendere che apparteneva a qualcuno, l’avrebbe tormentato. Anni con le valigie in mano, traslochi di famiglia, in famiglia affidataria e poi la comunità. Una villa che ospitava una decina di adolescenti e nel giorno in cui mi presentai, insieme all’assistente, non capirono chi fosse l’utente. “Mi raccomando, Viviana ha le sue risorse e i suoi progetti da portare a compimento”, chiarivano in primis. Sì, perché io non c’entravo nulla con quei ragazzi allo sbando, una compagna di letto che commetteva furti a ciel sereno, un’altra che piangeva per il distacco dai suoi. Io invece l’avevo richiesto: per anni ho subito le cose più indegne, ma grazie alla cara nonna materna, percorrevo i miei sogni anche quando il treno cambiava itinerario. Io c’ero: Logos mi diede la possibilità di svolgere uno stage presso la sua redazione e a distanza di dieci anni, gli rivolgo l’ennesimo “grazie”. Vittorio, il capo redattore ospite anche alla mia cerimonia di nozze, ogni volta mi dice che “ce l’avrei fatta anche senza il suo contributo”. Ma io non credo: la scrittura libera, è stata la mia salvezza. Avrei potuto gettarmi nella droga, in qualche giro losco, o di chissà che delinquenza, invece io prediligevo la strada dell’amore, del perdono, della vocazione giornalistica. Com’era e com’è bello sentirsi utili: ricordo ancora quando otto anni fa, riuscii a trovare una sistemazione decorosa ad una signora finita a mendicare fuori l’ospedale. Il mio viaggio in aereo, seduta accanto all’allora primo cittadino di Ossona, per raggiungere il Senato, a soli 19 anni. Voi direte, beh che male c’è? Tutto nella norma, o quasi, se non fosse che non avevo neanche i soldi per pagarmi quel biglietto e ci pensò il Sindaco, a cui importava il mio lavoro. 

Nel 2012, un educatore mi presentò ad una proloco locale, poiché cercavano una responsabile dell’opuscolo cittadino. A seguito di svariati incontri, la mia giovane faccia li rappresentava al timone. Il mio cuore gioiva, ma la mente non del tutto: continuavo a ricevere le più pesanti delle umiliazioni. E quando l’insulto arriva da un familiare stretto, fa male. Dovetti anche arrangiarmi con l’auto in panne in autostrada. Se mi giro, non so come sia riuscita a sostenere quel peso e allora riconduco il mio sguardo ai famosi sogni che non altro che bisogni al quadrato. Stavo crescendo grazie al supporto dei miei intervistati, delle persone che incontravo sul mio percorso e grazie a qualcuno che ha sorvegliato per me, non sono mai incappata in qualche grana. La testa è sempre stata fissa sulle spalle e spesso mi sentivo nei panni di Matilda in “Matilda sei mitica”. Lei parlava e nessuno l’ascoltava, lei sognava e suo padre la scoraggiava. Per non parlare della madre, una casalinga mantenuta che non aveva mai accolto l’arrivo della sua piccolina. La mia, fuggiva pur di non restare qui e ora comprendo il perché di quei gesti istintivi. Quando partiva, dal treno mi diceva “non piangere, ti voglio bene” e io le rispondevo “allora perché te ne vai da me?”. Inseguiva l’ennesima delusione amorosa ed io nel frattempo diventavo grande, mi spuntavano i denti, si allungavano i capelli, chiamavo mia nonna “mamma” e osservavo. Quanto mi ci perdevo in quello. Imitavo, mi sapevo conquistare il bene dei professori che ad oggi quando incontro, mi stringono la mano, congratulandosi. Un traguardo poter girare a testa alta per la città che mi ha cresciuta, conscia del mio vissuto.

Incominciai a battermi per la violenza sulle donne, io paladina di giustizia in prima linea. Le mie lacrime mi avevano resa Forte: avevo sopportato l'impossibile, senza genitori accanto e un nonno che diceva "tu dovrai correre più degli altri, vai!". E così feci: allacciai saldamente le mie stringe e non mi fermai più. Un viaggio alla Forrest Gump, ma che gioia.


Oggi racconto la nostra fiaba reale, anche se un giorno (in un romanzo rosa), la protagonista narrerà la mia storia.

…Dicembre 2019

Le foto, l’annuncio in famiglia e la sorpresa ai nostri amici, furono la cornice adatta per aggiungere un posto a tavola, stretti e premurosi nell’accogliere la piccola protagonista. Poi, improvvisamente, tutto si cristallizzò: ognuno nelle proprie case, uno a distanza dall’altro. Una foto all’aperto non era mai abbastanza libera poiché le mascherine rendevano ignoti i sorrisi. La famiglia rimase dietro ad uno schermo, in cui ci si ritrovava per una chiacchierata e gli amici recapitavano pensieri grazie alle Poste.

Ma, nonostante il marasma che ci circondava, io continuavo a sperare: dovevo farlo per quella creatura che giorno dopo giorno, diventava più grande e capace di captare sensazioni.

Lei è stata la mia forza, durante una gestazione che mi ha regalato un disturbo rarissimo, legato ad un eccesso di salivazione. Una lumaca, in pratica. Oltre a noi, sapevo che c’era chi stava peggio: mio padre, il neo nonno disabile e la mia cara nonna materna, che per anni ha vestito i panni di madre a tutti gli effetti. Tanti i “nuovi progenitori” che non hanno potuto dare loro un abbraccio, un saluto di persona: Lucrezia si è circondata dei suoi amici coscritti, le cui madri facevano squadra, anche virtualmente. E allora ecco che nelle prime pagine del mio testo autobiografico, sono presenti i miei pensieri alla George Perec. Emozioni, perplessità,angosce e soprattutto episodi divertenti che hanno caratterizzato il nostro primo e secondo lockdown. Tanti gli spunti di riflessione.

 

 


 


A presto

La nuova Me

 

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