Una dedica speciale, a porte chiuse
In
forma anonima, citerò di seguito il triste epilogo capitato ad una mia amica,
diventata mamma per la seconda volta, l’11 marzo scorso. Quando le gioie si macchiano di brutte
notizie, la voglia di sorridere viene meno e subentra lo sconforto, talvolta
(seppur legittima), la rabbia. La seconda gravidanza di Giulia, nome di
fantasia, non era iniziata nel migliore dei modi: esami sballati e tanto
prurito, accompagnati da un insolito calo di peso. Non ci faceva caso, lei, una
mia ex collega di lavoro e compagna di risate a crepapelle, quelle che appena
ci ripensi, ridi da sola e tirano su il morale.
Lei, madre già di una piccola creaturina, in attesa di una seconda,
altrettanto desiderata, a marzo ha partorito un bellissimo bimbo affetto però
da una malformazione cardiaca, scoperta soltanto una volta venuto al mondo. Un
imprevisto caduto violentemente sulla testa dei suoi genitori, che in quel
momento provavano tante emozioni, miste a confusione. Quel mattino, ho ricevuto
un suo msg contenente la foto del nuovo arrivato, nel bel mezzo di una pandemia
mondiale, beato e avvolto nella sua calda copertina. Un vero miracolo di Dio,
la vita che vince su tutto. Lei che, nelle settimane precedenti al parto, si è
vista in isolamento, chiusa in una camera d’ospedale, perché sospettata di aver
contratto il Covid, lasciata lì per dodici lunghi giorni, lontana dai suoi
affetti e consolata dal suo pancione. Ma oltre a quell’immagine sacra, ho
ascoltato l’audio della sua giovane mamma, la quale mi spiegava che per
anomalie ancora da indagare, il ritorno a casa del piccolino, non sarebbe stato
purtroppo imminente. Amareggiata, le ho dato tutto il mio supporto, sia per non
sentirsi sbagliata se al momento non poteva allattarlo, sia per darsi quella
forza tanto da “mascherare” la sofferenza al primogenito che l’aspettava a
casa. E così, le prime settimane di Andrea, nome reale, trascorsero nella culla
della nursery che fino a oggi, martedì 21 aprile 2020, lo ha ospitato
fungendogli da balia, tra le attenzioni di medici e neonatologi. Ma facendo un
passo indietro, solo uno per tornare a ieri, non sentendo più Giulia e
rispettando il suo dolore, le ho inviato un semplice messaggio per sapere come
stesse e lei, dopo poco, mi ha risposto con un vocale di un minuto circa che
non avrei voluto sentire: le notizie erano tutt’altro che confortanti e questa
volta riguardavano lei in prima persona. “Tumore nel sangue, affronterò anche
questo…”. Ciò che mi ha fatto perdere la restante parte del suo discorso, si è
come fermato lì, come quando passeggi serenamente in infradito e inciampi su un
sasso e resti lì qualche secondo, per capire se l’unghia c’è ancora e se la
ciabatta è ancora intatta. Ecco, questa metafora rende perfettamente l’idea. Il
prurito che avvertiva durante la gestazione, era già un primo campanello
d’allarme che i medici non avrebbero dovuto trascurare, così come gli esami che
non rientravano nei parametri. Nei suoi “lasciamo perdere”, ho ritrovato la
Giulia di sempre, quella a cui chiedevano di fare uno straordinario in più e
diceva di sì, per poi dire “lasciamo perdere, un giorno fissa farò come dico
io”, la Giulia che doveva andare in magazzino al posto di un altro e in
lontananza si sentiva “lasciamo perdere, va!”, la stessa ragazza, di un anno
più grande, che ho trovato al mio primo giorno di lavoro, al mio fianco, solare
e dalla personalità frizzante. Ricordo che il primo giorno di lavoro, non mi
stavano i pantaloni dati e così, non rientrando nella silhouette femminile, ho
accettato un cambio provvisorio da parte di un collega (uno tra i più
simpatici), per calzarli senza che la ciccia potesse lasciarmi con il sedere di
fuori. Una volta scesa in reparto, Giulia è scoppiata a ridere! Una risata che
non scherniva ma compiaciuta dalla mia capacità di adattarmi, senza stare
troppo a vedere se quei pantaloni fossero da uomo o da donna. In quel momento
stava iniziando un lungo giorno di lavoro ed io ero lì con lei, assolutamente a
mio agio in quella taglia comoda. Da subito, abbiamo fatto “coppia”: i turni
erano pressoché simili e anche i clienti erano divertiti nel trovare così complici
due ragazze, dove la prima era lì da qualche anno, mentre la seconda si
impegnava a capire quanto le spiegava, sotto lo sguardo vigile del capo.
Ricordo ancora quando dovevamo rifornire il banco e siamo andate insieme nella
cella frigorifera: un freddo! E lì, le nostre chiacchiere sfociavano in
pettegolezzi, mentre lei mi spiegava cosa prendere e cosa no. Insomma, una super
collega, dinamica e onesta, di cui non ho mai avuto da ridire nei miei sei mesi
di lavoro lì con lei, dove molte volte suggeriva come fare per semplificarmi il
lavoro o mi copriva se avevo l’urgenza di andare a svuotare la vescica. La
spalla era reciproca e la sintonia pure. Forse perché da lì a qualche mese,
c’eravamo ricordate che prendevamo il bus insieme per frequentare la stessa
scuola superiore. Era la sola con cui potevi abbassare la guardia in quei
giorni ni, di cui potevi fidarti liberamente, senza doverti guardare alle
spalle, a differenza di colleghe “mature” e pettegole. Sapeva la mia passione
per il giornalismo e mi diceva sempre che lì ero sprecata, ma aveva compreso la
mia necessità di guadagnare e così anche lei mi aveva confidato che doveva
prendersi una casa più grande e soprattutto, un giorno negli spogliatoi, mi
aveva detto che stava cercando un figlio col suo compagno di una vita. Una
ricerca bellissima, che le illuminava il viso, mentre ci si infilava di nuovo i
guanti e la cuffietta per tornare in trincea, come dicevamo noi. Bevute d’acqua
veloci, quelle dove ti bagni le labbra per poi asciugarle con il palmo della
mano e per cui in quei momenti, invidiavi i colleghi fissi che invece potevano
bere in tutta comodità e nelle pause mangiarsi anche un panino. Noi però non
ambivamo a loro: per essere così dovevi essere ruffiano e non possedere alcune
capacità e arrivare lì solo perché una volta il lavoro era accessibile a tutti.
Noi eravamo quelle della nuova generazione, che prendeva il treno presto al
mattino, col freddo che pervadeva anche gli stivaletti, e si raggiungeva la
sede di Pioltello Limito, per affrontare un nuovo corso di aggiornamento e
qualche quiz d’esame. Si tornava tardi la sera e per ammazzare il tempo del
viaggio, si rileggevano gli appunti da applicare sul lavoro. Noi ne sapevamo
sempre di più, ma la gavetta era appena iniziata e così ci facevamo andare bene
i turni, le richieste di straordinari, le chiusure (fisse da contatto part time
verticale con doppio salto carpiato), gli snack veloci che per ricominciare a
parlare, emettevi suoni strani. Insomma, felicemente di corsa perché quel posto
era una garanzia, era un treno che tanti volevano prendere e dove il
controllore ti approvava solo dopo tre colloqui, di cui uno di gruppo. Ricordo
chiaramente, a distanza di quattro anni, quando dovetti prendere il treno per
recarmi alla Fiera del Cibo, la Cibus di Parma, con Edoardo Raspelli. Il mio
turno finiva alle 21 in punto ma solo dopo aver tirato a lucido l’ambiente, si
poteva timbrare il cartellino e lo si faceva come chi deve raggiungere il posto
della conta a nascondino. Ecco, quella sera Giulia mi aveva detto di non
preoccuparmi e che avrebbe fatto chiusura completa lei e così, con mia nonna
che attendeva in auto con il mio trolley preparato il giorno prima, siamo
volate in stazione per prendere il passante delle 21:20. Tutto d’un fiato, con
un guanto unto di focaccine, le nostre preferite e qualche traccia di farina in
viso e il biglietto in tasca. Stavo lasciando il lavoro che mi dava da
mangiare, per partecipare da co-conduttrice allo show culinario più atteso
d’Italia e così, sul treno, rileggevo i copioni giusti senza confonderli con
quelli del corso per imparare a scongelare il pane. Una volta arrivata, avevo
mandato un messaggio a Giulia, ringraziandola nuovamente e dicendole che il
viaggio era andato bene, senza nessuno davanti
e col privilegio di tirare le gambe sul sedile. Ci sentivamo anche fuori
dal lavoro perché ci volevamo bene e si aveva quella stima rara che oggigiorno
non si trova. Penso che questo sia il motivo principale per cui ho resistito:
perché quel carico diviso era molto più leggero. E poi, quando l’anno
successivo Giulia è riuscita a rimanere incinta, senza dover dire “lasciamo
stare, mi sono arrivate anche stavolta”, ho sorriso dicendole che allora non
era sterile, prendendola in giro. Francesco, nome reale, aveva i suoi occhioni
scuri ed era sempre solare, proprio come lei. Ora, non posso credere che la
vita le abbia dato un brav’uomo al suo fianco, quella casa comprata coi suoi
sacrifici, un figlio e ora un altro, per poi far scorrere nelle sue vene un
tumore aggressivo, a soli 29 anni. Perché? Ma perché a lei che male non ne
aveva fatto e come me, ha aiutato altrettante persone? Concludo così questa
lettera, piena dei nostri ricordi, con l’auspicio che quel “lasciamo stare” che era solita dire, sia la conclusione di un percorso che avrà un lieto fine.
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